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Patrizia Licata
Scrittore Collaboratore

L’AI dalla teoria alla pratica: come innovare tra sfide tecniche, costi e change management

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21 ott 202511 minuti

I CIO cercano ancora la chiave per tradurre in progetti concreti e fruttuosi gli entusiasmi sull’intelligenza artificiale. Per qualcuno manca la killer app che faccia “svoltare” il mondo produttivo. Molti considerano l’AI un tema sia di IT che di HR, perché richiede di fare formazione e di rendere le persone consapevoli di potenzialità e rischi. L’immaturità dei dati e la mancanza di una strategia sono ostacoli significativi nel passaggio dalla teoria alla pratica, ma la Gen AI può cambiare lo scenario e dare nuova spinta ai progetti bloccati nei PoC.

Abstract digital technology background. Isometric AI chip with AI hologram with circuit tech bg. Connected lines electric lightning. Bright light neon blue quantum CPU processor. Vector illustration.
Credito: AntonKhrupinArt / Shutterstock

L’intelligenza artificiale si è imposta quest’anno come l’area di più alto profilo degli investimenti tecnologici per i CIO globali, come afferma il 42% dei partecipanti al recente sondaggio State of the CIO 2025 [in inglese] condotto da Foundry. Per il 45%, AI e Machine Learning sono l’area strategicamente più importante.

L’interesse è pervasivo in tutte le industrie e le aree geografiche. In EMEA, in particolare, il 76%dei CIO rivela di aver ricevuto lo specifico compito dal board di ricercare e valutare possibili prodotti di intelligenza artificiale da aggiungere allo stack tecnologico, il 76% afferma che sta lavorando più a stretto contatto con il business sulle applicazioni AI e il 64% dichiara che l’IT e il business sono allineati sull’adozione e l’uso dell’AI Generativa.

Ma tanto fermento non si traduce sempre in certezze. Come passare dalla teoria alla pratica è la domanda chiave che si pongono i CIO. Anche quelli che più credono nelle potenzialità dell’AI vogliono essere certi di poter attuare progetti di reale trasformazione e beneficio.

“Non è così banale applicare l’intelligenza artificiale in azienda come i vendor vogliono farci credere”, ci ha confessato un CIO italiano. “Due sono gli ostacoli: avere un adeguato prompt engineering per interagire al meglio con l’AI Generativa facendo le domande più giuste, e disporre di dati a sufficienza e di qualità per i progetti AI”.

C’è un ulteriore fattore: le potenzialità dell’intelligenza artificiale vanno dimostrate al board con precise metriche di ritorno di investimento e casi d’uso che provino che l’AI funziona per la propria azienda.

“L’intelligenza artificiale rappresenta una svolta epocale, paragonabile alla diffusione dei Pc e di Internet, e le potenzialità sono immense”, conferma Giuseppe Ridulfo, Vice Responsabile Dipartimento Organizzazione e Responsabile Sistemi Informativi di Banca Popolare Etica. “Ma, come tutti i cambiamenti di vasta portata, richiede cautela e consapevolezza, soprattutto se si trattano dati sensibili. Per questo molti CIO del mondo bancario si chiedono come passare dalla teoria alla pratica”.

L’AI dalla teoria alla pratica: i dati verticali

Non è solo il mondo bancario a porsi questa domanda. Per i CIO l’AI dei prodotti come ChatGPT o Copilot, che rispondono alle domande, velocizzano le ricerche e sintetizzano i documenti, può essere utile ma non è decisiva.

“All’industria serve la killer application e, per arrivare a questo traguardo, occorrono i dati certificati su cui far girare gli algoritmi AI”, afferma Gianni Sannino, Head of Business Network Services di Sirti Digital Solutions. “La vera applicazione pratica dell’AI dovrebbe essere qualcosa che aumenta l’efficienza dell’azione umana o della linea di produzione. Oggi tutto viene pubblicizzato come AI, ma dobbiamo guardarci dagli slogan. La verità è che l’industria è ancora alla ricerca di una vera applicazione pratica e la chiave di volta manca perché non c’è la qualità del dato in ingresso”.

Secondo Sannino il problema è che non esiste un ente federato che sia in grado di certificare e standardizzare i dati che addestrano e nutrono l’AI. Servirebbero degli organismi di standardizzazione per certificare i dati e creare data lake verticali, cioè mirati per settore industriale.

“Gli hyperscaler non hanno certo interesse a occuparsi di questo, visto che dominano i dati online, ma l’Europa potrebbe – anzi dovrebbe – farlo tramite i centri di R&D aziendali e le università”, dichiara Sannino.

Per i CIO, insomma, parlare di AI in modo astrattamente entusiastico non serve. I CIO vogliono il game changer e “per trovarlo servono le AI verticali, non l’AI generica, bensì Agenti e dati specializzati”, evidenzia Sannino.

Lo stesso discorso vale per l’AI open source: “Si può usare – afferma Sannino -, ma anche questa dovrebbe essere in grado di fornirci dei data lake certificati e verticalizzati. Il dato, non il software, è il fondamento dell’intelligenza artificiale, se no come possiamo aspettarci di usare l’AI per prendere delle decisioni? In definitiva, secondo me, oggi l’AI è fondamentalmente ancora una RPA”.

Il change management e la strategia

In generale, passare dalla teoria alla pratica nell’AI dipende dall’industry e dalla dimensione di impresa, nonché da quanto si può investire. Le aziende piccole o la manifattura molto verticale tendono ad adottare l’intelligenza artificiale nei processi interni: solitamente sono soddisfatte con prodotti come Copilot e un assistente virtuale. Ma passare dalla teoria alla pratica richiede di preventivare una spesa che non è solo quella dell’acquisto della piattaforma o delle licenze.

“Occorre investire sul change managent per garantire l’adozione e la generazione di benefici”, osserva la CIO di un’azienda del finance. “Per estrarre valore dall’investimento AI bisogna che le persone usino davvero il prodotto e ne sfruttino al massimo tutti gli strumenti disponibili”. 

Servono, dunque, piani di formazione e adozione, inclusivi di use case e best practice. Questi hanno un costo in termini di denaro, tempo e persone impiegate, ma sono indispensabili per portare l’AI nella pratica aziendale.

Se il modello va costruito ex novo, bisogna anche predisporre i dati e rivolgersi a un fornitore esterno: l’investimento è ancora più rilevante e i costi operativi del cloud su cui gira il modello lievitano. Perciò, alla base delle implementazioni AI, c’è sempre una strategia.

“L’AI non si improvvisa”, ribadisce la CIO. “Si deve partire con le idee chiare sul prodotto che serve, come implementarlo e con quali fornitori. La strategia è indispensabile anche perché deve tenere conto dell’esigenza di governance e conformità alle regole, come l’AI Act, e del fatto che la tecnologia è in costante evoluzione”. 

Non a caso, molte aziende grandi, soprattutto nei settori regolati, pur avendo maggiori risorse da investire, restano alla fase sperimentale: spinte da un’attenzione massima a costi e compliance, disegnano degli use case da incorporare nei processi produttivi, ma esitano dal portarli su scala, cioè sono lontane dal creare un’infrastruttura interna e un modello di governance tali che sostengano quegli use case e ne rendano ininfluenti i costi.  

“Anche noi, per ora, ci siamo fermati a singoli progetti e aspettiamo l’evoluzione della tecnologia”, ci ha confermato questa CIO.

Un dipartimento ad hoc per l’AI

Ridulfo considera l’AI un tema sia di IT che di HR, perché richiede di fare formazione e rendere le persone consapevoli di potenzialità e rischi, come l’esposizione dei dati o addirittura la perdita di competenze.

Al momento Banca Etica sta conducendo un pilota con Gemini di Google, provando una serie di casi d’uso quali la trascrizione delle riunioni, la produzione di testo e la sintesi di documenti. L’obiettivo è individuare le applicazioni pratiche che più servono ai dipendenti della banca e limitare l’utilizzo a questi use case certificati, con benefici e rischi controllati e con il supporto dell’HR sulla formazione all’utilizzo.

Banca Etica ha anche istituito un Ufficio analisi dati e intelligenza artificiale, che fa parte del Dipartimento Organizzazione (di cui Ridulfo è vice responsabile). Questo ufficio è nato innanzitutto per dedicare risorse specializzate alla data governance e al progetto del data warehouse interno su cui fondare l’analisi dei dati, ma si occupa anche dell’adozione delle tecnologie emergenti come AI, ML e RPA, conducendo test e sperimentazioni.

Attualmente, l’Ufficio analisi dati e intelligenza artificiale di Banca Etica sta lavorando su un modello di pricing per l’erogazione del credito. Il modello integra l’analisi dei dati creditizi tradizionali con fattori ESG, consentendo un pricing personalizzato e adeguato al cliente. In questa sperimentazione, la banca sta lavorando con un fornitore italiano di tecnologie AI, affiancato dal team di sviluppo interno – una scelta che, secondo Ridulfo, si è rivelata molto efficace.

“Il fornitore italiano ci offre prossimità e controllo sulla tecnologia”, sottolinea il maanger. “Quanto allo sviluppo interno, abbiamo portato in azienda due studenti senior dell’Università d Pisa che hanno svolto il dottorato da noi: uno si occupa di RPA, e l’altra fa modellazione di algoritmi”.

La svolta con l’AI Generativa

La disponibilità di soluzioni di AI Generativa può rivelarsi fondamentale nel passaggio dai pilota alle implementazioni. È quanto accaduto in Abaco (servizi per gli enti locali), come svela Giuliano Rorato, Responsabile Sistemi Informatici dell’azienda.

“Siamo partiti con un approccio graduale, perché quello dell’AI è un percorso da affrontare con cautela”, racconta Rorato. “Abbiamo iniziato, alcuni anni fa, a sperimentare applicazioni dell’AI come Machine Learning, arrivando alla realizzazione di un prototipo”.

Circa quattro anni fa, infatti, il team di Rorato ha sviluppato uno strumento per le attività di previsione dell’ufficio che si occupa di recupero crediti. Quest’area è stata scelta dopo un’analisi che ha concluso che avrebbe tratto il massimo beneficio dall’AI. Qui il software ha il compito di elaborare delle previsioni per permettere di ottimizzare il recupero dei crediti dagli enti locali clienti di Abaco. Ma il prototipo – realizzato da uno studente senior, un laureando – non è stato mai portato in produzione, in quanto “l’effort richiesto in termini di tempo e risorse era ingente e gli sforzi sono stati rivolti ad altre aree ritenute prioritarie”.

Quest’anno, però, il progetto è stato recuperato per passare all’implementazione, grazie proprio all’evoluzione tecnologica della GenAI. 

“L’intelligenza artificiale generativa ci ha dato una spinta non solo perché offre, concretamente, un nuovo modello per l’implementazione pratica, ma perché ha reso l’AI irrinunciabile per tutte le imprese. Chi non la adotta perde competitività”, sottolinea Rorato. “La GenAI non cambia le cose sul piano del tempo, delle persone o dei soldi che possiamo investire – chiarisce il manager – , ma gli strumenti tecnologici oggi a disposizione sembrano garantire un risultato migliore. In più, adesso tutti usano l’AI Generativa e, anche ai vertici aziendali, investire in intelligenza artificiale appare molto più strategico e prioritario rispetto a pochi anni fa”.

Per passare all’attuazione del progetto, Abaco ha assunto due persone (uno specialista senior e uno junior) dando vita a un team interno all’IT dedicato all’AI e allo sviluppo di questo tipo di progetti.

“Trovarle non è stato facile, ci abbiamo messo qualche mese. Ma le risorse dedicate sono fondamentali”, ribadisce Rorato.

È ora di andare oltre i PoC

Per passare dalla teoria alla pratica nei progetti AI i talenti sono, dunque, cruciali, e aiutano a trovare gli use case che generano ritorni. Ma qualche analista sottolinea l’esigenza di velocizzare il passaggio dai test alla produzione, con un approccio agile e un po’ più coraggioso.

“Quello che ho osservato è che l’AI si impara facendo. Molto dipende, sicuramente, dal proprio settore e dall’ecosistema, ma l’AI – come tutte le innovazioni disruptive – non ammette tempi lunghi”, commenta Michele Caruso (CXO Europe di Wimbee Tech). “La percentuale di successo nella prima fase di adozione è molto bassa: rispetto ai prototipi e alle sperimentazioni, i progetti AI che un’azienda veramente riesce a industrializzare su larga scala sono il 10-20% nel migliore dei casi, se no ci si ferma al 5%. Ma, adottando un approccio test and learn, si riesce più facilmente a capire quale use case funziona, e quello che funziona ripaga per tutti i test che non hanno avuto successo, sbloccando valore di business e crescita tangibile. Perciò direi di passare velocemente dalla teoria alla pratica, uscire da una logica di ‘PoC-ismo’ e imparare sul campo: senza farsi trascinare dall’hype ma nemmeno perdersi nella troppa prudenza, perché ci sono ambiti in cui l’AI porta molti benefici e adottarla è davvero un fattore di competitività”.

In definitiva, teoria e pratica, più che susseguirsi, dovrebbero procedere a braccetto. Se interviene il “fallimento”, occorre imparare dall’errore e usarlo costruttivamente, seguendo il principio del “fail fast, fail often” o, come lo ha definito Gartner, “fail forward”: sfruttare gli errori per riuscire ad andare avanti lungo la strada dell’innovazione. In questo percorso, disporre sempre di dati di qualità è la discriminante per trasformare i test in lezioni utili e la teoria in pratica anziché in costosi fallimenti. 

Patrizia Licata
Scrittore Collaboratore

Giornalista professionista e scrittrice. Dopo la laurea in Lettere all’Università La Sapienza di Roma, ho iniziato a lavorare come freelance sui temi dell’innovazione e dell'economia digitale. Scrivo anche di automobili, energia, risorse umane e lifestyle. Da una ventina d’anni collaboro con le principali testate italiane su carta e web.

 

A regular contributor to CIO Italia, Patrizia Licata is a professional journalist and writer based in Rome. After graduating in Literature at La Sapienza University in Rome, she began working as a freelancer on the topics of innovation and digital economy. She also writes about cars, energy, human resources, and lifestyle for various publications. For about 20 years, she has been collaborating with the main Italian newspapers on paper and online.

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